RCS: altri problemi per Cairo - IL TORO SIAMO NOI
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RCS: altri problemi per Cairo

Dopo le proteste dei  giornalisti del Corriere della Sera e della Rcs periodici contro il piano  esuberi, oggi arriva un comunicato del Cdr di Rcs Periodici sulla richiesta di stato di crisi da parte di Urbano  Cairo. Lo riportiamo integralmente qui di seguito.

 

“E alla fine, anche l’imprenditore italiano con la migliore reputazione online – così assicura la classifica di Reputation Science – per fare cassa chiede i soldi allo Stato.

Urbano Cairo, presidente e amministratore delegato di Rcs Mediagroup, che il 19 dicembre scorso arringava i giornalisti nelle sale della mensa aziendale dicendo «quando sono arrivato i dipendenti del gruppo erano 3.300 e tanti sono ancora oggi: l’unico imprenditore che non manda a casa nessuno sono io!», una manciata di giorni dopo chiede lo stato di crisi.

Sulla carta la formula appare più elegante, “riorganizzazione per lo sviluppo digitale”, ma la sostanza è quella: solo tra i giornalisti del gruppo, Cairo chiede 75 prepensionamenti e cassa integrazione per 24 mesi (per non parlare degli ammortizzatori sociali richiesti per impiegati, poligrafici, operai). Una decisione verso la quale i giornalisti di Rcs Periodici ribadiscono la loro assoluta contrarietà.

Un’urgenza motivata da un’azienda in rosso? Niente affatto.

Solo nel 2018, l’utile di Rcs Mediagroup è stato di 85 milioni di euro; Cairo ha erogato premi ai dirigenti di prima fascia, distribuito dividendi a sé e ai suoi azionisti per 31 milioni e, presumibilmente, farà altrettanto nel 2020. È vero, i ricavi netti del 2019 appaiono in flessione (-5,5%), ma, come dichiarano gli stessi manager di Rcs, «l’azienda ha fatto meglio del mercato». Motivo in più per non attingere alle casse dello Stato.

Uno sguardo al passato. Solo nelle redazioni dei Periodici Rcs sono stati attivati stati di crisi ininterrotti dal 2009 al 2018. Abbiamo assistito al taglio di oltre un terzo dei giornalisti, il tutto accompagnato da solidarietà e cassa integrazione fino al 30% e da un ferreo piano di smaltimento ferie. Sacrifici, questi, affrontati dai giornalisti della Periodici con senso di responsabilità e di fiducia nel risanamento e nella buona gestione dell’azienda. E invece no. Nell’era Cairo, al primo segnale di contrazione dei ricavi, si torna ad attingere alle casse dello Stato e alle tasche dei dipendenti. Con il rischio che il cosiddetto “piano di riorganizzazione per lo sviluppo digitale” si traduca in un mero implemento di attività sui social network e apra ancor più la porta alla commistione tra informazione e pubblicità.

Spiace constatare che quello che pareva l’imprenditore più coraggioso e innovativo, l’unico editore “puro” del panorama italiano, anziché investire sulla professionalità dei giornalisti e sull’autorevolezza delle testate del gruppo, si limiti a ricorrere alla riduzione del costo del lavoro. E che la sua idea di sviluppo (digitale o meno) sia una banale richiesta di tagli, sostenuti dai fondi pubblici”.

Milano, 6 febbraio 2020

Il Cdr dei Periodici Rcs Mediagroup

Urbano Cairo è appena diventato il manager con la più alta reputazione in Italia nello stesso momento in cui la sua stella si sta appannando. La sua squadra è dodicesima e contestata dai tifosi, la sua azienda è solida ma chiede lo stato di crisi e prepara i primi pre pensionamenti. I suoi soci guardano con diffidenza una mossa azzardata che rischia di costare 600 milioni di euro se il fondo Blackstone, una delle più grandi società finanziarie del mondo, vincerà la disputa legale. Il rischio concreto è mandare all’aria i successi costruiti in questi anni. E rovinarsi un futuro in politica. Il 2020 di Cairo è iniziato malissimo.

Eppure il patron di La7, Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport, di varie riviste nazional popolari e del Torino Calcio è da anni l’uomo del momento. Capace di prendere imprese sull’orlo del fallimento, risanare i conti e risparmiare al centesimo sui costi per poi portarle al successo. Un po’ Re Mida, un po’ Scrooge, un po’ Berlusconi, un po’ pop. Il suo motto è Veni, Vidi, (ri)Vitalizzo. Ci è riuscito con il gruppo Rcs, scalato nel 2016 quando non lo voleva più nessuno, con 1,3 miliardi di euro di perdite accumulate nei cinque anni precedenti e in pericolo la continuità della gestione. In tre anni: debito dimezzato, qualche licenziamento e il primo dividendo agli azionisti dopo quasi un decennio. Lo stesso con La7. Comprata a Telecom per un milione nel 2013, è diventato un genere: il canale “all-talk-show”, costo minimo alto rendimento. Programmi condotti da giornalisti-star che intervistano ogni giorno altri giornalisti-star. Il settimo canale italiano è diventato il primo nell’influenzare l’opinione pubblica, anche se nella direzione del populismo e del sovranismo. Anche nel calcio un piccolo miracolo. Cairo ha preso il Torino nel 2005 neopromosso in Serie A, ma fallito nei conti, e dopo alti e bassi lo ha portato l’anno scorso al miglior piazzamento degli ultimi vent’anni: settimo posto, 63 punti e qualificazione ai preliminari di Europa League.

Il titolo di Cavaliere, un passato da collaboratore di Silvio Berlusconi e di direttore commerciale di Publitalia ‘80. In molti hanno visto in lui un deja vù: l’imprenditore con la ricetta vincente che scende in politica e salva il Paese come le sue aziende. Il 26 agosto sembrava possibile: sul Foglio, Cairo presenta un “manifesto politico” con cinque idee per rilanciare l’Italia dopo l’esperienza disastrosa del governo giallo-verde e le premesse deprimenti di quello giallo-rosso. «Un altro governo è possibile». La discesa in campo non era questione di se, ma di quando. Magari in una formazione centrista in grado di attirare i delusi di Forza Italia e i moderati del Paese. Un federatore di quell’area politica oggi occupata da Matteo Renzi, Carlo Calenda, Emma Bonino e Mara Carfagna. «Progettavo la scalata a Rcs da dieci anni senza farne mai parola con nessuno, nell’assoluto riserbo. Un giorno l’ho realizzata. I sogni non si svelano in anticipo: si mettono in pratica», diceva con candore.

Poi, è arrivato il 2020 con un gennaio nero che rischia di essere un febbraio ancora peggiore. Il suo Toro sembra a fine corsa: dodicesimo in classifica, 17 gol subiti nelle ultime 4 sconfitte. Pardon, partite. Sette a 0 dall’Atalanta, 4 a 0 dal Lecce quartultimo. La sua gestione oculata e parsimoniosa è diventata tutto a un tratto taccagna e miope agli occhi dei tifosi, nonostante le paginate fervide e i titoloni tripudianti dei suoi giornali. Ora la piazza gli chiede di andarsene perché ha messo a posto i conti, ma non ha infiammato i cuori con acquisti mirabolanti, solo sessioni di mercato giudicate eccellenti dai suoi giornali per il solo fatto di non aver venduto nessuno. E dopo tanto tempo si ricorda che il presidente è originario di Alessandria, non di Torino. La Stampa, non la Gazzetta, lo accusa di aver portato il Toro «dal fallimento all’eutanasia». L’esonero di Walter Mazzarri sostituito da Moreno Longo non calmerà gli animi.

I problemi non sono solo nel calcio. Questo mese Cairo ha chiesto lo stato di crisi per Rcs, la prima volta nella sua gestione. L’unico modo per poter usare i contributi pubblici stanziati dal governo per i prepensionamenti di giornalisti e poligrafici, nella legge di Bilancio per il 2020. Molti si chiedono perché, visto che il gruppo ha accumulato 85 milioni di euro di utili nel 2018 e dovrebbe arrivare 60 milioni per il 2019. Una spiegazione la si può trovare nel dato dei primi nove mesi del 2019 che Rcs ha chiuso con un utile netto di 40,7 milioni euro. Dodici in meno dei 52,1 milioni di euro dello stesso periodo nel 2018. Sono calati sia i ricavi legati alla diffusione delle copie (- 6,3%), sia quelli della pubblicità (-4.7).

I primi scricchiolii di un’azienda leader e sana ma che vive in un’industria di giornali di carta destinati a reinventarsi. Dopo aver tagliato i buoni taxi, le note spese, le collaborazioni, i debiti con i fornitori e i costi di gestione, a Cairo rimangono solo i giornalisti cui è solito dare consigli su titoli, pagine, copertine, grafica, argomenti e personaggi da trattare e tutto il resto che serve a confezionare un prodotto editoriale. Con i prepensionamenti potrebbero andare via 50 giornalisti su 350, il 15 per cento. Sarebbe un colpo al mito di Cairo che ad agosto al suo Corriere diceva: «Chi non avrebbe scommesso di ritrovarci qui oggi, con un organico intatto di 3.300 persone» e nel 2015 rivelava proprio a Linkiesta la sua ricetta: «Tagliare i costi, mai i dipendenti».

Dovrà farlo se ad aprile perderà lo scontro con Blackstone per la vendita della sede milanese del Corriere della Sera. Nel 2013, in uno dei momenti finanziari più difficili, Rcs ha venduto il palazzo storico di Via Solferino e gli immobili in via San Marco e via Balazan al fondo americano per 120 milioni di euro che li ha affittati a sua volta a Rcs per 10,3 milioni di euro all’anno. Poi Blackstone ha deciso di vendere gli stabili al gruppo assicurativo Allianz per 250 milioni di euro. La trattativa si è arenata perché Cairo, arrivato a Rcs nel 2016, ha deciso che l’accordo fatto dai suoi predecessori era troppo svantaggioso per l’azienda e fatto in condizioni sfavorevoli da rasentare l’usura. Ecco perché nel novembre del 2018 è ricorso a un arbitrato a Milano per chiedere l’annullamento della vendita a Blackstone che a sua volta ha citato Cairo e Rcs al tribunale di New York chiedendo un risarcimento per entrambi di 300 milioni di euro.

Cairo in questi mesi ha rassicurato sulla vittoria, ma il rischio che l’arbitrato sia sfavorevole è alto. Blackstone gestisce un patrimonio da 545 miliardi di dollari e potrebbe permettersi di perdere 250 milioni di euro potenziali. Ma il risarcimento di 600 milioni chiesto dal fondo è superiore alla capitalizzazione di Borsa di Rcs: circa 499 milioni. Si potrebbe ricapitalizzare, ma potrebbe essere una mazzata in grado di vanificare la buona gestione del gruppo fatta in questi anni. Per questo Cairo in estate ha voluto tutelarsi. Come riportato dal Sole 24 Ore, il consiglio di amministrazione di Rcs ha garantito a Cairo che si farà carico dei danni in caso di arbitrato sfavorevole. In gergo tecnico si chiama “manleva”.

Nella riunione di agosto in cui il cda ha preso la decisione mancavano pezzi grossi di Rcs come Diego Della Valle, Marco Tronchetti Provera, Carlo Cimbri di Unipol e Gaetano Micciché di Banca Imi-gruppo Intesa Sanpaolo. Banca Imi fu advisor della vendita a Blackstone. La sentenza può arrivare anche ad aprile, ma c’è la sensazione che già a fine febbraio si possa scoprire la tappa più importante dell’era Cairo. Intanto questo mese è tornato primo nella classifica di gennaio della Top Manager Reputation, fatta dall’Osservatorio permanente di Reputation Science. Notizia da prima pagina nell’inserto L’Economia del suo Corriere della Sera. Ma Cairo ora ha altro a cui pensare.

Fonte likinsta

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