24 aprile 2005: ci lascia il Presidente Pianelli
Orfeo Pianelli: il presidente dell’ultimo scudetto granata, il secondo più vincente della storia del club dopo l’inarrivabile Ferruccio Novo. Un tricolore e due Coppe Italia costituiscono il palmares per l’uomo che seppe affrontare con grande passione un compito apparentemente arduo, quello di dirigere una società dal passato ingombrante, ma che sa anche regalare emozioni uniche e sa ripagare delle energie e dei soldi spesi.
Mantovano di Borgoforte dove nasce il 10 agosto 1920, primo di tre fratelli, fin da piccolo è abituato alla responsabilita: accudisce alla sorella ed al fratello più giovani mentre i genitori lavorano nei campi, per poi andare a scuola e, nel pomeriggio, lavorare presso un falegname. «Per arrivare al bancone dovevo salire su una sedia; il sabato portavo a casa 20 centesimi. Ho incominciato a lavorare quando ho incominciato a camminare, a otto anni mungevo le mucche meglio di un anziano. Facevo sei chilometri a piedi per andare a scuola, fino alla terza elementare; poi ne facevo dodici per arrivare fino alla quinta; poi ventisei per andare garzone muratore. Ci andavo in bicicletta, ed ero tanto piccolo che non potevo appoggiarmi alla sella e pedalavo a cavalcioni della canna»
Arriva a Torino nel 1936, a sedici anni. Trova lavoro come muratore a Grugliasco; la sera va a scuola di elettrotecnica e contemporaneamente studia per corrispondenza da capomastro. «Andai avanti così per quattro anni, ma ero stanco di fare il muratore, anche se guadagnavo tre lire e mezzo l’ora. Sono andato da un elettricista ad una lira l’ora. Due anni dopo ero caposquadra. Intanto studiavo da meccanico la sera». Sono anni duri e a Torino arriva la guerra.
«L’otto settembre lavoravo alla Fiat ed un ufficiale tedesco voleva che andassi con lui a recuperare parti di aerei della Fiat nascosti in certe caverne sul lago di Garda. Io sono scappato e mi sono nascosto in un sottoscala di via Cernaia 3, sotto i ruderi del teatro Alfieri bombardato. Per campare mi sono messo a fare l’elettricista, andavo nelle case a riparare gli impianti della luce, e di lavoro ce n’era, i bombardamenti ne fornivano in abbondanza. Così incominciai a prendermi un ragazzo come aiuto, poi un secondo; alla fine della guerra avevo già dieci dipendenti».
Fino all’incontro che dà la svolta alla sua vita professionale e non: «Una sera ho incontrato Traversa: eravamo stati entrambi operai alla Fiat. Gli ho proposto di unirsi a me per mettere su una società. Mi rispose che doveva portare a casa la busta ogni sabato. Te la garantisco io, gli dissi. Il primo incarico con la Fiat fu un contratto per 900 mila lire per montare entro trenta giorni un tornio ad alta frequenza per alberi a gomito. Glielo piazzammo in 29 giorni, e il professor Valletta, invece di 900 mila lire, ci diede un milione e trecentomila, un premio di quattrocentomila lire».
La scalata continua, e tutto ciò che Pianelli avvia trova immediatamente felice attuazione. La sua prima fabbrica? Un vecchio capannone mezzo diroccato in via Asolone, che diventa presto troppo piccolo. «Mentre lavoravamo allo stretto, una ditta specializzata ci costruiva attorno uno stabilimento più grande». Da lì partirà per la gloria delle grandi costruzioni meccaniche ed elettriche un po’ ovunque in Italia, ma anche in Spagna, Francia e Russia. Ma questa gloria non gli basta, e le porte di un certo mondo si aprono solo con chiavi di prestigio sociale.
Entra così in contatto con la dirigenza del Torino Calcio. Per i granata gli anni del dopo Superga sono stati difficili, non sono mancate le illusioni ma la realtà impone di fare i conti con casse sociali sempre più in affanno. Così dopo il grigio interregno di Angelo Filippone ecco arrivare questo piccolo grande uomo: «Avvenne nel 1962, durante una festa alla quale partecipavano i giocatori del Torino. Avevo sempre tifato per i granata e ci sono andato, anche per fiutare un pò l’aria. Le cose non andavano troppo bene sotto il profilo finanziario ed io sborsai trenta milioni. Mi ammisero prima nella società finanziaria, poi nel consiglio d’amministrazione. Si svolgevano assemblee di fuoco, sempre per via dei debiti. Ce n’erano già per due miliardi. Presidente era allora Filippone che continuava a sbraitare: bisogna cacciar fuori soldi. Dissi che non avrei più dato un centesimo, non mi andava come amministravano la società. Nel febbraio del 1963 ho preso in mano tutto io, ed ho cercato di amministrare il Torino come una mia azienda».
Per farsi aiutare sceglie di avvalersi proprio di Giovanni Traversa, che oltre che socio in affari sarà anche il suo più valente collaboratore fino a quando una brutale malattia non lo strapperà allaffetto della gente granata, cui si era immediatamente affezionato. E’ il Torino di Bearzot, di Danova, di Hitchens e del grande Ferrini, quello che si trova tra le mani il neopresidente Pianelli alla vigilia del campionato 1962-63. Si respira nuovamente aria di grande calcio, dopo gli anni cupi che avevano fatto da preludio alla prima, dolorosissima retrocessione del 1959. Pianelli è ambizioso, ma perfettamente conscio dei propri mezzi economici: non si sarebbe mai fatto trascinare in furibonde aste a suon di centinaia di milioni per strappare alla concorrenza il nome capace di eccitare le folle.
Il definitivo ritorno del Torino nell’elite del calcio italiano si ha soltanto nella stagione 1964-65, che vede la squadra allenata da Rocco precedere finalmente al terzo posto la Juventus, dopo anni di patimenti. Ma il fatto più rilevante è rappresentato dall’acquisto del giovane Luigi Meroni dal Genoa. Gigi è la speranza per il futuro: anticonformista, vitale, estroso e dotato di un talento unico, pare incarnare la “diversità” dell’essere granata in tutta la sua tragicità. Non tarderà a diventare l’idolo dei tifosi e soprattutto del Presidente. A Pianelli non piacciono i ragazzi con i capelli lunghi, la barba e i vestiti stravaganti (in seguito non sopporterà i giocatori che cercavano di scimmiottare Meroni) ma a Gigino permetteva tutto. E quando Meroni che pure era così geloso della sua privacy gli dice: «Presidente, se lei mi dice di recidermi la chioma e di radermi la faccia, io farò senza aspettare un minuto» Pianelli si commuove e non gli impone il sacrifìcio. Ma l’avventura del povero Gigi finisce all’inizio del campionato 1967-68, travolto da un’auto in Corso Re Umberto, una domenica sera, mentre passeggia con l’amico e compagno di squadra Poletti.
Nel 1967/68 arriva in panchina un pò a sorpresa Edmondo Fabbri, una sorta di scommessa di Pianelli che recupera il tecnico di Castelbolognese dopo lo shock del Mondiale ’66. E è proprio Mondino, al quinto anno di presidenza, a portargli la prima vittoria, la Coppa Italia del ’68. Intanto il processo di rilancio della società procede, seppur lentamente e nel suo bilancio c’è anche la semifinale di Coppa delle Coppe del ’65, nella prima storica partecipazione granata alle competizioni internazionali.
Veloce è invece il susseguirsi di allenatori sulla panchina del Toro. Ma dopo aver puntato sui grandi nomi, Pianelli cambia strada: ecco così arrivare prima Giancarlo Cadè, che porterà un’altra Coppa Italia nel ’71 e poi, nel 1972, Gustavo Giagnoni, che sfiora uno storico scudetto nel 1971/72. La stagione è esaltante: alla fine dell’andata il Toro si ritrova settimo, staccato di sei lunghezze dalla Juve capolista. Ma grazie a un prodigioso recupero, i ragazzi di Giagnoni si inseriscono a sorpresa nel vivo della lotta per il titolo e alla ventiseiesima arriva al sorpasso ai danni dei cugini zebrati. L’estenuante inseguimento ha però sfiancato i ragazzi di Pianelli. Alla fine, il generoso Toro arriva secondo, in compagnia del Milan, a un solo punto dalla vetta.
Pianelli ci crede ma la stagione successiva sarà ricordata per l’esplosione di Pulici (capo cannoniere con 17 reti assieme a Rivera e Savoldi) perchè la zona-titolo non sarà nemmeno sfiorata. Per il nuovo campionato Pianelli regala a Giagnoni l’ennesima baby-scommessa, ovverosia un giovanissimo Francesco Graziani, prelevato dall’Arezzo. In campionato le cose per il Toro si mettono male, e in seguito a un pesante tre a zero beccato a Milano dall’Inter, mister Colbacco viene sostituito dal redivivo Edmondo Fabbri che raddrizza la barca e conduce i granata ad un onorevole quinto posto.
Quello del 1974-75 è un campionato interlocutorio, che vede però affermarsi in prima squadra un altro giovane di valore, Zaccarelli, destinato a diventare una vera e propria bandiera. Oltre a Pulici, anche il ragazzino prelevato dall’Arezzo conferma le buone impressioni suscitate la stagione precedente: alla fine sono trenta le reti per i “gemelli del gol”. Grande il merito Fabbri, che trova la definitiva sistemazione a Claudio Sala affidandogli compiti di appoggio ai due arieti che, ispirati dal grande regista, esplodono fragorosamente.
Che la squadra sia pronta per l’impresa, Pianelli lo capisce. Manca solo qualche ritocco, magari in panchina. E arriva infatti l’epopea di Gigi Radice, alfa ed omega del romanzo granata di Orfeo Pianelli. L’essenza del gioco propugnato dal “prussiano” Radice è un calcio moderno, che ha come modello la grande Olanda di quegli anni, dell’immenso Cruijff e del calcio totale, antesignano del moderno pressing. Il tecnico brianzolo raccoglie i frutti maturati nel corso delle stagioni precedenti e riesce a far convivere generosi gregari, come Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Santin e Gorin II, raffinati esteti come Claudio Sala e Pecci, un centrocampista d’assalto come Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i “gemelli” Pulici e Graziani. In più, Castellini, un estremo difensore di grandi qualità e vice-Zoff in Nazionale.
Il Torino, dopo aver rimontato cinque punti alla Juventus, arriva all’ultima giornata con un esiguo punto di vantaggio, che non permette quindi calcoli di sorta, per la gara conclusiva col Cesena. A semplificare le cose provvedono i cugini bianconeri, che cadono a Perugia: un sofferto pareggio casalingo con il Cesena è sufficiente a consegnare il 16 maggio 1976 all’armata di Radice il settimo, tanto atteso titolo. Quattordici vittorie su quindici in casa, con un solo pareggio proprio nell’ultima e decisiva giornata, ma soprattutto una cifra di gioco eccezionale, ed a velocità mai viste. Il sogno di Orfeo Pianelli è realtà: ha restituito la gioia ai tifosi granata, che lo ripagano idolatrandolo. Ed il bello sembra dover ancora venire perchè un ciclo di successi, sull’onda dei ricordi, pare all’orizzonte.
La stagione successiva si riduce fin da subito ad un furibondo testa a testa con la Juventus fino all’ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, i granata raggiungono la stratosferica quota di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juve ne farà uno in più. Delusione difficilissima da smaltire, da aggiungere alla cocente eliminazione in Coppa dei Campioni agli ottavi, per mano dei tedeschi del Borussia Mönchengladbach. I granata si avviano verso un nuovo, inarrestabile, lento declino. il gruppo che il presidente aveva creato, coccolato e viziato con ingaggi sontuosi, invece di rafforzarsi nella propria forza, si sgretola forse proprio a causa della delusione.
Fermento nello spogliatoio, liti col tecnico: il Toro ritorna sulla terra, nonostante i risultati degli anni successivi non siano affatto deludenti. Ma il sogno è durato troppo poco e la gente non la prende bene: incredibile ma vero, la contestazione coinvolge anche Pianelli, accusato di assistere impotente al declino del suo giocattolo. Nell’inverno del 1980 deve esonerare con dolore Radice, ma non basterà nonostante la sua unica colpa fosse stata quella di non voler accettare che quegli stessi giocatori che l’avevano fatto sognare si fossero spenti così velocemente.
Impossibile rimanere a dispetto dei santi, così il 21 maggio 1982 firma la cessione a Sergio Rossi, all’indomani della terza finale consecutiva persa di Coppa Italia, il suo trofeo per eccellenza perchè durante la sua gestione la squadra seppe ottenere due vittorie ed altre sei finali. Ha le lacrime agli occhi, Orfeo, agli sgoccioli di una stagione apparentemente anonima ma in realtà tra le più belle della storia granata perchè condotta con quasi metà rosa composta da ragazzi del Filadelfia, nati e cresciuti in quel vivaio che Pianelli per primo valorizzò. Non gli sarà di sollievo nè assistere al simile destino cui andrà incontro il suo successore nè tantomeno al tracollo degli anni successivi, con presidenti neanche minimamente paragonabili a lui per calore e passione.
Del Toro rimarrà tifoso per sempre, anche quando osserva le vicende granata dalla suo esilio dorato in Costa Azzurra, a Villefranche-sur-Mer dopo aver subito un processo per bancarotta fraudolenta. Al termine del processo verrà comunque ritenuto innocente in quanto la distrazione di capitali si era verificata per adempiere al pagamento del riscatto per il rapimento del nipote che poi sarà liberato.
Orfeo Pianelli morirà al termine di lunghe sofferenze il 24 aprile 2005. Con colpevole ritardo, nel 2008 gli verrà intitolato il primo Toro Club, ovviamente in Costa Azzurra. Poco lontano viveva l’amata figlia Maria Cristina, anch’essa rimasta attaccatissima al Toro fino al 15 maggio 2010, quando, senza preavviso, il cielo decide di farla ricongiungere al padre, lassù dove qualcuno ama il Toro.
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