A Torino anche il calcio è un’altra cosa
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Abitare a Torino significa fare per forza i conti con il calcio. Se in qualunque altra città si può ignorare, qui è impossibile. Juve e Toro – perché nessuno in città chiama il Torino Football Club, Torino – sono una parte del tessuto cittadino, tanto quanto i portici, la Mole e il Po.
Arrivata qui ho scelto la mia parte per contiguità affettiva: la maggior parte delle persone a cui voglio bene e con cui passo il mio tempo mi hanno fatto innamorare del Toro – amici della Juve, comprendetemi, al cuore non si comanda.
Le storie di bambine portate in Curva Maratona fin da piccolissime con tutta la famiglia, in casa loro le foto di Pulici, incorniciate e messe insieme a quelle dei parenti. Amici che pensavano di registrare all’anagrafe il figlio con i nomi di Pasquale come primo e Bruno di secondo, accontentandosi poi di dargli un Leo di secondo nome, per celebrare Leo Júnior.
La tragica storia del Grande Torino, patrimonio di una nazione intera, che si ripropone ogni giorno quando si alzano gli occhi verso Superga. Quella altrettanto tragica di Gigi Meroni, l’uomo eccentrico che portava al guinzaglio una gallina, splendida farfalla granata in campo abbattuta in corso Re Umberto e poi trascinata per cinquanta metri dall’auto di un neopatentato che sarebbe diventato poi presidente del Toro. Per non parlare del silenzio completo che regna in città quando si giocano i derby, interrotto solo dai boati provenienti dalle case dell’una o dell’altra tifoseria.
Da quando ho messo piede in terra sabauda ho espresso il desiderio di andare allo stadio. A Natale ho ricevuto un biglietto da un’amica tifosa e mi sono guardata Toro-Genoa in Curva Maratona. Il campo non l’ho quasi visto, ma ho guardato le persone. I parin che a stento si reggevano in piedi accompagnati dalla loro signora, fermi immobili e bofonchianti in un gelido pomeriggio di fine dicembre. Le famiglie con bambini. I capi ultrà in maglietta – tanto li scalda il Borghetti bevuto al chiosco fuori dallo stadio – con la schiena rivolta al campo a coordinare i cori. Uomini, donne, ragazzi, ragazze con rigoroso abbigliamento granata – io mi ero adeguata mettendo un cappello in lana e il rossetto in pendant -. Tutti sotto l’immensa scritta «Forza vecchio cuore granata» a lamentarsi del gioco, dell’allenatore, dei giocatori, con promesse di stracciare l’abbonamento una volta usciti di lì.
Il tifoso granata da sempre borbotta, si arrabbia, ma è lo stesso che nel 2011 uscì di casa portando con sé una sedia fino a un Filadelfia diroccato per alzala al cielo, in onore di Emiliano Mondonico e della sua battaglia contro la malattia. Come dicevo ieri in occasione della morte di Mondo, che la sedia la alzò verso il cielo di Amsterdam per protestare contro l’iniquità arbitrale, solo in una città come Torino succedono queste cose, perché qui l’essere tifosi è una condizione umana ed esistenziale che va ben oltre il campo.
Fonte la stampa