Pulici:"Ogni partita era come una battaglia.Il premio era l'attesa della partita, giocarla e vincerla" - IL TORO SIAMO NOI
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Pulici:”Ogni partita era come una battaglia.Il premio era l’attesa della partita, giocarla e vincerla”

Era talmente potente, lanciato palla al piede, che ai difensori avversari, quando se lo ritrovavano di fronte sembrava di aver incrociato un ciclone. Per questo motivo, il grande Gianni Brera, stregato da una tale irruenza, gli ha attribuito uno dei soprannomi più suggestivi della storia del calcio: ‘Puliciclone’,

Paolino Pulici (così è stato registrato all’anagrafe) è stato il bomber più prolifico di sempre della storia del Torino, con ben 172 goal spalmati in 14 stagioni e assieme ad altri campioni ha scritto le pagine più belle della storia granata dopo la Seconda Guerra Mondiale vincendo uno Scudetto e una Coppa Italia, oltre a tre titoli consecutivi di capocannoniere della Serie A.

“Nel mio gioco c’era davvero qualcosa di ciclonico, – dichiarerà l’attaccante – non mi fermavo mai, non è che stavo troppo a pensare se davanti a me avevo tre avversari, non è che mi dicevo oddio che faccio. Andavo sulla palla e se la perdevo pazienza, avrei fatto goal in un altro momento. La maggior parte degli avversari, da Cuccureddu a Gentile, a Facchetti, mi dicevano: sei immarcabile, sei cattivo come una peste. Questa cosa mi dava grande soddisfazione”.

‘Pupi’, altro soprannome che gli viene dato in questo caso dai suoi tifosi, chiuderà la sua carriera nel 1985, all’età di 35 anni, dopo aver giocato anche con le maglie di Udinese e Fiorentina. Con l’unico cruccio della Nazionale, visto che in azzurro soffrirà la concorrenza e non riuscirà a ripetere le gesta con cui mandava in estasi i tifosi granata.

GIOVANE OPERAIO E IL PROVINO CON L’INTER

Paolino Pulici nasce a Roncello, nell’attuale provincia di Monza e Brianza, il 27 aprile 1950. Suo padre, Silvio, lavora come operaio in una fabbrica di rame, mentre sua madre, Claudia, è casalinga. Fin da giovane i genitori gli impartiscono la cultura del lavoro. Così fa il falegname e l’imbianchino, prima di andare a fare l’operaio in fabbrica.

“Lavoravo in una trafileria di rame. – racconta a Gianni Mura in un’intervista a ‘La Repubblica nel 2014 – Tutti bevevano latte, per togliersi dalla bocca i vapori del verderame, ma io ero quasi allergico al latte, tant’è che mia madre mi ha tirato su a patate, così ho cominciato a fumare. Avevo 14 anni. Un brutto vizio, poi ho smesso”. 

Nel frattempo, come tanti giovani, si innamora del calcio, quello più autentico.

“Allora Roncello faceva 800 abitanti, – racconta – adesso è cinque volte tanto, un dormitorio di Milano come molti paesi qui intorno. Non c’era nemmeno l’oratorio, giocavo in piazza della chiesa. Una porta era quella dell’asilo, l’altra quella di una casa. Trovo ancora qualcuno che mi rinfaccia d’aver rotto un vetro a sua nonna o a sua zia. Tiravo solo di destro. Sono cresciuto in una famiglia milanista ma il mio idolo era Gigi Riva”.

Paolino cresce con un fisico forte ed è molto veloce fin da giovane. 

“A 15 anni correvo i 100 in 10″5 con le scarpe da calcio. – sottolinea – E sempre a 15 anni faccio i primi allenamenti veri. Ero cresciuto allo stato brado, senza che nessuno mi dicesse cosa fare o non fare. Fin quando arriva il giorno del provino con l’Inter, sul campo di Rogoredo, con altri ragazzi della regione”.

Pulici sogna di essere preso, invece arriva per lui una dura bocciatura.

“A guardare ci sono Helenio Herrera e Invernizzi. Li sento parlare a fine partita. ‘L’11 è troppo veloce per giocare a calcio, meglio che si dia all’atletica’. L’11 ero io, e ci rimasi male”.

Niente Inter, dunque, ma la carriera inizia dal Legnano, in Serie C, la stessa squadra con cui aveva giocato l’idolo Riva, e con la quale debutta fra i professionisti nel 1966/67. Contemporaneamente continua a lavorare. 

“Sono passato in un mollificio di Roncello, Cima, si chiamava. – racconta – Ci tengo a citarlo perché il padrone, Gigi, era una brava persona. Quando il Torino mi ha preso dal Legnano, gli ho chiesto di tenermi il posto per un anno. Se andava male, tornavo in fabbrica”. 

Il Torino chiama, mamma Claudia è perplessa, ma Paolino non esita a dire sì.

“Mia madre aveva dei dubbi: è troppo lontano da casa, farai la vita del barbone. Invece ci sono rimasto 15 anni, bellissimi e lunghissimi”.

IL TORINO, I SUCCESSI E LE GRANDI VITTORIE

Nel 1967/78 Pulici diventa ufficialmente un calciatore del Torino. Inizialmente è aggregato alla Primavera, ma il 23 marzo 1969 debutta in Serie A in Torino-Cagliari 0-0. Dall’altra parte c’è quell’idolo che lui sognava di emulare da bambino: Gigi Riva.

“Prima partita col Cagliari. Sottopassaggio. Sento uno che mi tocca sulla schiena, mi giro. È Riva. Vai tranquillo, mi dice, noi che veniamo dal Legnano sappiamo cavarcela. Beh, mi sono sentito più alto di un metro”. 

Gli inizi non sono tuttavia rose e fiori per l’attaccante di Roncello, che si allena al Filadelfia e ha tanto da imparare. Con la Primavera granata vince due volte lo Scudetto.

“Il fascino del Filadelfia, – spiega Pulici – direi la scuola, era che i campi d’allenamento erano tutti lì, e anche gli spogliatoi, i più vicini al campo per la prima squadra e poi via via, più defilati, quelli delle Giovanili. E io ricordo bene con quanta trepidazione camminavo davanti allo spogliatoio dei titolari nella speranza che uscisse qualcuno a chiedermi chi ero, da dove venivo, in che ruolo giocavo. Ed è successo: il primo è stato Moschino, poi Ferrini, Combin, Puja”.

“Quando poi qualcuno di loro si fermava a guardare le nostre partitelle, – racconta – ti sentivi di spaccare il mondo. E io, facendo carriera, mi sono regolato come Moschino quel giorno: Chi sei? Da dove vieni? Ah, giochi in attacco? Se fai goal, martedì me lo vieni a dire. Ci vuole così poco a far felice un ragazzo, a farlo sentire nel gruppo”.

I suoi allenatori gli chiedono un miglioramento sul piano tecnico. 

“Devo molto ad alcuni allenatori. – ammette – Giagnoni e Radice, ma prima ancora ad Oberdan Ussello (il tecnico della Primavera granata, ndr). Aveva una grande umanità. ‘Ricordatevi che loro vi stanno guardando’, diceva quando passavamo davanti allo spogliatoio dei grandi. E per loro intendeva Mazzola, Maroso, Castigliano, Gabetto. Poi c’erano i vecchi cuori granata. Guarda Pupi, questo è l’autografo di capitan Valentino”.

“Sai, Pupi, che un goal come il tuo l’ho visto fare a Libonatti? Io sono destro naturale, molti pensano che sia mancino ma è stato Ussello il primo a farmi usare il sinistro. ‘Le mamme ci hanno dato due piedi per usarli, Pupi. Tu credi che il più forte sia il destro, invece è il sinistro, il piede d’appoggio. Prova a tirare’, mi diceva. Col destro, 140 all’ora, col sinistro 160. Col destro giocavo la palla ferma, col sinistro quella in movimento”.

Pian piano il ragazzo arrivato dal Legnano diventa un centravanti immarcabile per i difensori avversari, che anche grazie a un fisico importante (un metro e 77 centimetri per 74 chilogrammi) sa essere letale in area di rigore.

“I primi due anni ero una frana. – dice di se stesso – In allenamento uno sfracello, in partita una quantità di pali e traverse, ma solo 3 goal in 47 gare. Ero già in Prima squadra e Ussello disse a Giagnoni: ‘Il ragazzo non è tranquillo quando tira, se me lo dai per un mese te lo rendo lucidato’. Per me era un passo indietro ma non me la presi, capii che era per il mio bene. Giagnoni si fidava, dopo quel mese mi nominò rigorista ufficiale”.

Grazie ai goal di ‘Puliciclone’, il Torino diventa una squadra da vertici della classifica. Nel 1970/71 arriva il primo trofeo, la Coppa Italia, che i granata conquistano battendo nello spareggio il Milan ai rigori. Pulici la vive da rincalzo e non scende in campo.

Ma negli anni seguenti diventa un titolare inamovibile della squadra titolare: il Torino si piazza al 2° posto nel 1971/72 (5 goal), seguono due sesti e un quinto posto. E i numeri dell’attaccante lombardo si impennano: 17 nel 1972/73, 14 nel 1973/74, 18 nel 1974/75, 21 nel 1975/76, l’anno più bello, quello migliore in assoluto nella carriera di Paolino Pulici, che coincide con lo storico Scudetto dei granata di Radice, il primo del Dopoguerra.

Una squadra stellare e be costruita dall’ex centrocampista del Milan e dal presidente Orfeo Pianelli, che fa leva su un attacco di prim’ordine, nel quale giocano ‘I Gemelli del goal’: dal 1973 accanto a Pulici, cui è demandata la finalizzazione, agisce infatti Ciccio Graziani, chiamato a fare movimento e ad aprirgli gli spazi. All’ala destra è stato spostato ‘Il Poeta del goal’, Claudio Sala, mentre in mezzo Zaccarelli e Pecci formano una coppia centrale di centrocampo di grande qualità. Il portiere è Luciano Castellini, detto ‘Il Giaguaro’.

Pulici vince in quella stagione il terzo e ultimo titolo di capocannoniere, e dà un contributo fondamentale a vincere il duello con la Juventus. Segna uno dei due goal con cui i granata superano i rivali bianconeri nel Derby di andata, mentre sono ben tre le triplette stagionali, messe a segno contro Bologna, Perugia e Fiorentina. Tutto si decide all’ultima giornata: il Torino ci arriva con una lunghezza di vantaggio. I granata pareggiano in casa con il Cesena, grazie proprio ad una rete del proprio bomber, mentre Renato Curi affonda la Juventus a Perugia e consegna il titolo alla squadra di Radice.

“Quella giornata è stata particolarissima. La prima immagine che mi resta è lo stadio stracolmo. – afferma in un’intervista a ‘Toropuntoit’ – Quando ho segnato di testa tutto lo stadio mi teneva su. Un’emozione unica. Eravamo tutti uniti per un obiettivo comune. Non è mai un giocatore solo a vincere la partita, ma la squadra assieme ai tifosi”.

Pulici diventa uno dei simboli del Torino e si conferma uno degli attaccanti più temuti dai difensori.

“Burgnich è stato l’avversario più corretto, – dice – Morini il più coriaceo, una volta mi ha anche morsicato sulla schiena ma in genere s’aiutava con le mani. Berti Vogts il più cattivo, ma anche Galdiolo non scherzava. Pronti via, Pecci mi dà la palla larga, Galdiolo mi falcia da dietro, mi sbatte fuori dal campo e mi dice: o ti fermo così o non ti fermo proprio. Soddisfazioni. Il mio primo goal lo segnai proprio all’Inter, saltando Burgnich. Che si complimenta mentre torno a centrocampo: ‘Bravo Pulici, vai avanti così, magari non insistere proprio oggi’. Un’altra volta segno un bel goal in slalom alla Fiorentina e Mazzone mi chiama a sé. Cosa vorrà? Mi accosto. ‘Bravo, me li hai ammazzati tutti’, mi dice, e mi stringe la mano”.

Speciali erano naturalmente i Derby della Mole, che lo vedevano fra i grandi protagonisti. Il 5 novembre 1972 al ‘Comunale’ si permette addirittura il lusso di far goal in pallonetto a Dino Zoff, per poi andare ad esultare col pugno chiuso sotto la Maratona.

“Quel pallonetto ha ispirato Messi, – ha rivelato Paolino in un’intervista a ‘La Stampa’ – Me l’ha detto lui, quando l’ho incontrato a Milano prima di una partita di Champions contro l’Inter. Tutto questo perché Guardiola gli ha fatto vedere e rivedere il dvd ‘Semplicemente Pulici’ con tutti i miei goal. È stata la rete più bella, la più utile quella che valse lo Scudetto contro il Cesena”. 

“Cuccureddu – ricorda a ‘La Repubblica’ – diceva che nel derby mi diventavano granata anche gli occhi. Ma eravamo amici, avevamo fatto il militare insieme. Una volta in uno scontro con Scirea mi ruppi il naso. Quando mi risvegliai all’ospedale, dopo l’operazione, la prima faccia che vidi, oltre a quella di mia moglie, era di Scirea. Un grande, Gaetano. Su lui non saremmo mai andati in pressione”.

“La parola pressing non era ancora arrivata, ma Radice ci diceva di andare in pressione sul difensore più scarso di piede. Nella Juve Morini, nell’Inter Baresi. Si cercava l’anello debole. E Radice, ogni volta, prima di andare in campo, ci faceva: ‘Qualcuno ha qualcosa da dire?’. Era un modo per coinvolgerci, le cose non cadevano dall’alto”.

Fra i compagni, Pulici ci tiene a ricordare lo storico capitano Giorgio Ferrini, morto l’8 novembre 1976 per un’emorragia cerebrale.

“Una volta mi trovai da solo contro quattro difensori e cercai il fallo. Mi buttai, l’arbitrò abboccò. E Ferrini negli spogliatoi mi disse a muso duro: ragazzino, che sia l’ultima volta che ti butti. Alla fine ci rimetti tu, l’arbitro guarda la moviola stasera e in futuro ci penserà due volte prima di darti un rigore che c’era. Grande capitano, Ferrini. Quando le cose andavano male diceva: ‘Adesso dobbiamo buttare il cuore oltre l’ostacolo e andarcelo a riprendere’. E noi ci saremmo buttati nel fuoco. Erano battaglie sì, ma con una regola non scritta: va bene l’entrata anche dura se c’è il pallone, al limite sono più veloce a spostarlo e mi prendi la gamba, ma va bene. A palla lontana, ogni carognata non sarà tollerata. Oggi vedo falli molto più cattivi di una volta”.

AZZURRO SBIADITO

A differenza di quanto accade con la maglia del Torino, in Nazionale le cose per Paolino Pulici non vanno altrettanto bene. Dopo 4 goal in 7 presenze con l’Italia Under 21, il debutto in Nazionale maggiore arriva il 31 marzo 1973 a gara in corso nel netto 5-0 con il Lussemburgo, in una partita valida per le Qualificazioni ai Mondiali ’74. Il 7 aprile 1976 vive la serata più bella nel 3-2 contro la Grecia, gara in cui realizza una doppietta.

Ma in generale soffre la concorrenza di Bettega e non riesce a imporsi. Convocato per due volte ai Mondiali, quello del 1974 con Bernardini Ct., e quello del 1978 in Argentina con Enzo Bearzot, non vedrà mai il campo. 

“Il mio rimpianto più forte riguarda la Nazionale. – afferma – Sono l’unico convocato a due Mondiali senza mai andare nemmeno in panchina. La prima volta nel ’74 ero giovane, avevo davanti giocatori famosi, ma in Argentina la mia parte potevo farla. Del Toro eravamo in sei e giocò solo Zaccarelli. Alle semifinali molti erano cotti, ma non ci furono cambi. E dire che Bearzot era un vecchio cuore granata. Comunque non mi lamento”.

Chiude dopo i Mondiali del 1978, il 23 settembre di quell’anno, scendendo in campo nell’amichevole contro la Turchia con un bilancio di 5 reti in 19 gare.

GLI ULTIMI ANNI CON UDINESE E FIORENTINA E IL POST CARRIERA

Nonostante sia un’icona del Torino, Pulici viene incredibilmente messo da parte dalla società quando ha compiuto 32 anni e ha alle spalle 172 goal totali in 472 presenze, con 7 stagioni in doppia cifra, l’ultima il 1978/79. La sua bandiera viene ammainata.

“Sono passato dal ruolo di insostituibile a quello di inutile. – afferma a ‘La Repubblica’ – Il presidente Pianelli per noi era come un padre. Cedette il club ma mi lasciò il cartellino. Forse per questo Moggi mi fece fuori col pretesto che ero vecchio. Avevo 32 anni e al posto mio presero Selvaggi che ne aveva 30”.

Le ultime stagioni lo vedono così vestire per un anno la maglia dell’Udinese (31 presenze e 5 goal) e per due quella viola della Fiorentina (58 presenze e 12 reti). Chiude così la carriera nel 1985, a 35 anni, con un bottino di 198 goal totali segnati fra club e Nazionali.

Appesi gli scarpini al chiodo, per 2 anni, dal 1986 al 1988, fa l’allenatore in seconda del Piacenza accanto a Titta Rota, con cui nel 1988 conquista una promozione in Serie B, e nel 1988/89 affianca prima Enrico Catuzzi poi Attilio Perotti. 

“A parte Beppe Signori, un ragazzino con cui ci si sfidava ai rigori e che cercava in qualche modo di imitare qualche mio colpo, ho trovato poca umanità, poca umiltà, poca voglia di sacrificarsi. Al Toro ogni partita era come una battaglia, non si discuteva con largo anticipo sul premio-partita. Il premio era l’attesa della partita, e poi giocarla e magari vincerla”.

Così dice basta, da uomo tutto d’un pezzo com’è, per allenare gratis, dal 1990, i Pulcini della Tritium (6-8 anni) di Trezzo sull’Adda.

“Mi piace, mi aiuta a non sentirmi un anziano signore coi capelli bianchi. Più che un allenatore sono un compagno di gioco più anziano. È un po’ come a scuola, in prima elementare non puoi assegnare subito un tema o dare un problemino da risolvere. Prima c’è l’abc, le tabelline. Quindi insegno come si stoppa, come si passa il pallone, come si tira”.

Con il sogno, un giorno, di vedere un attaccante forte come lo era lui guidare il suo Torino a nuove vittorie dopo anni di difficoltà.

Fonte Goal.com

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