In ricordo di Joe - IL TORO SIAMO NOI
In ricordo di Joe - IL TORO SIAMO NOI
In ricordo di Joe - IL TORO SIAMO NOI

In ricordo di Joe


Era il più interessante dei “Ragazzi di stadio” intervistati nel 1979, sugli spalti del mitico stadio Filadelfia, dal regista Daniele Segre nel suo documentario sulla passione calcistica, sui riti e i miti dei pionieri del tifo ultrà: le collette, le coreografie, gli scontri e le alleanze con i tifosi di altre squadre.
Gli amici e i rivali di Joe avevano nomi che nemmeno nella Compagnia dei Celestini di Stefano Benni: da una parte i granata Ciro, Margaro, Strega, Gagnosporco, Checco, Cascoperenne, Muzza, Mazzone, Il cinese, Fossa e Pino il biondo; dall’altra i bianconeri Beppe Rossi, Dino Mocciola, Marchetti, Acanfora, Caiola, Cosolungo, Jekyll, Valerio capellone.

Prima si chiamavano Commandos, poi, sulla scia delle mode politiche, il nome del gruppo cambiò in Fedayn, Tupamaros, Panthers e, nel 1969 (ma ufficialmente soltanto dal 1973), Maratona Club Torino Ultras Granata. “Il nostro primo presidente era Carlo Aicardi – ricordava Joe -, che aveva qualche anno in più di noi, ma soprattutto era meno oltranzista e più moderato, forbito e presentabile”.

Dieci anni più tardi, mentre la rivista francese Onze nominava la Maratona “curva più bella d’Europa”, Joe, orecchino da pirata e riccioli lunghi a incorniciare il faccione, entrava alla Fiat di Rivalta, reparto presse. Il Settantasette era ancora lì, dietro l’angolo. Joe era un punto di riferimento anche in fabbrica. Aveva una grande influenza sui giovani forse perché, usando l’arma dell’ironia, metteva alla berlina non soltanto i capi ma anche quei sindacalisti che lo temevano – tanto da provare a boicottarlo a livello politico – perché troppo a sinistra, attestato sulle posizioni di Lotta Continua. Gli dicevano “guarda che qua non siamo allo stadio”, dove si scimmiottava la malapolitica di allora, tra gesti della P38, pugni chiusi e saluti romani.

Joe era un idealista, un nostalgico, un romantico. Aveva una grande cultura e un’ottima dialettica. Ha assistito al malinconico slow del suo Toro, dallo scudetto del 1976 al fallimento del 2005, con tanta, troppa Serie B. Lui sempre lì allo stadio, nei pressi della balconata, e con gli amici di sempre. Battuta pronta, cappello azzurro e la vista che man mano si abbassava. Negli ultimi tempi – complice la malattia, un diabete che lo ha consumato -, brontolava più che mai: ce l’aveva un po’ con tutti, ma un po’ di più con i giornalisti. Ce l’aveva anche con quegli ultras d’antan, che lui chiamava “soloni” o “dinosauri”, che pontificano narrando grandi imprese di tempi ormai andati (onestamente ammetteva: “E tra questi ci sono anch’io”). Se ne vanno i tempi di Joe, eterno ragazzo di stadio, e se ne sono forse già andati quelli di un calcio che ha venduto ormai l’anima a molti diavoli.

Fonte repubblica