04/05/1949 h.17:03: lo schianto nella nebbia,gli ultimi istanti del Grande Torino - IL TORO SIAMO NOI
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04/05/1949 h.17:03: lo schianto nella nebbia,gli ultimi istanti del Grande Torino - IL TORO SIAMO NOI

04/05/1949 h.17:03: lo schianto nella nebbia,gli ultimi istanti del Grande Torino

Il Fiat G-212CP con la livrea delle Avio Linee Italiane (una compagnia aerea della società automobilistica e aeronautica di Torino) rulla lentamente sulla pista di Lisbona. I tre motori Pratt & Whitney R-1830 rombano, pronti a spingere il velivolo nella corsa di decollo che lo porterà a Barcellona. Ai comandi il tenente colonnello Pierluigi Meroni, 34 anni, decorato con due medaglie d’argento e tre di bronzo. Il secondo è il maggiore Cesare Biancardi, coetaneo di Meroni, e insieme a loro ci sono il capo marconista Antonio Pangrazzi (42 anni) e il motorista Celeste d’Incà (45 anni). Sono tutti veterani del volo e di guerra.

Il Torino dei record

A bordo del trimotore c’è una squadra di calcio, una squadra leggendaria: il Grande Torino. La sua storia fenomenale comincia durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1942, quando vince uno scudetto dopo una dura lotta contro il Livorno, ma solo dopo il conflitto diventa il Torino dei record: nella stagione 1947-48 grazie a una vittoria per 10 a 0 sull’Alessandria il Torino realizza il maggior numero di reti in una partita dall’istituzione del girone unico, nello stesso anno con 125 gol stabilisce il record per maggior numero di marcature in un campionato. Nelle stagioni tra il 1943 e 1949 entra anche nel record per maggior numero di partite casalinghe consecutive senza sconfitta: ben 88. La squadra granata era talmente forte che nella primavera del 1947 il commissario tecnico della nazionale Vittorio Pozzo convoca ben 10 giocatori del Torino su 11 per la partita contro l’Ungheria, una partita che resterà quella con il maggior numero di giocatori provenienti dalla stessa squadra in campo.

A bordo, insieme alla squadra, ci sono anche i dirigenti e tre dei migliori giornalisti sportivi italiani che siano mai esistiti: Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti che scrive per la Gazzetta del Popolo e Luigi Cavallero de La Stampa.

La squadra è di ritorno da un incontro amichevole con il Benfica, organizzato in occasione dell’addio al calcio del suo capitano, Francisco “Xico” Ferreira, e per aiutare finanziariamente la società lusitana. Un’amichevole che fu veramente tale, in uno stadio gremito di folla, perché “il Toro” perse 4 a 3, ma questa è un’altra storia.

Alle 9.40 del mattino del 4 maggio 1949, un mercoledì, il G-212 decolla dall’aeroporto di Lisbona. Il piano di volo è semplice: il velivolo deve effettuare uno scalo tecnico a Barcellona per effettuare rifornimento e poi compiere l’ultimo balzo verso Torino, dove atterrerà all’aeroporto “Aeritalia” sito nel comune di Collegno. Il trimotore arrriva all’aeroporto di Barcellona alle 13, come previsto, e durante la sosta la squadra del Torino, a pranzo, si incrocia con quella del Milan, in viaggio verso Madrid per disputare a sua volta un incontro amichevole contro il Real.

Il velivolo con a bordo il club granata riparte alle 14.50. La rotta prestabilita prevede di passare sulla verticale di Cap de Creus, poi Tolone, Nizza e, oltrepassati i confini nazionali, Albenga e Savona. Quindi l’aereo deve virare in direzione nord, verso il capoluogo piemontese, dove è previsto il suo arrivo intorno alle 17.

Il meteo durante le prime fasi del volo è buono, la visibilità ottima, ma più l’aereo si avvicina alla sua destinazione più questa peggiora. La torre di Torino comunica che nella zona le condizioni sono pessime: venti da sudovest, pioggia insistente e visibilità molto scarsa (circa 40 metri). Ci sono continui rovesci di pioggia, le nubi sono quasi a contatto con il suolo, e oltre alla visibilità orizzontale decisamente ridotta, il libeccio si fa sentire con raffiche di una certa potenza.

Il pilota mantiene la rotta verso il radiofaro di Pino Torinese e una volta giunto sulla sua verticale conta di virare con prua 290 per allinearsi alla pista.

Alle 16.55 la torre chiede di riferire la posizione. Meroni risponde quattro minuti più tardi. Forse un segnale che l’equipaggio è in difficoltà per via delle pessime condizioni ambientali. Alle 16.59, dopo un silenzio stranamente lungo, il pilota riferisce “quota 2000 metri”. Alle 17.03 il velivolo compie una virata verso sinistra in corrispondenza del colle di Superga. L’ultima virata che avrebbe dovuto portarlo sulla pista.

Possiamo provare a immaginare quanto avviene in cabina. Pilota e secondo predispongono il velivolo per l’atterraggio: giù il carrello, giù i flap, le mani sul volantino e sulla manetta per contrastare le potenti raffiche di vento. Il velivolo ha appena compiuto la sua virata in corto finale, come si dice in gergo aeronautico, ed è in volo livellato.

Alle 17.03 il Fiat G-212CP, siglato I-Elce, impatta contro il terrapieno della basilica di Superga, sita in cima all’omonimo colle alto circa 600 metri. Tutti e 31 gli occupanti periscono nel tremendo impatto. L’impennaggio di coda è la sola parte del trimotore che resta intatta.

Il cappellano della basilica, don Tancredi Ricca, e un contadino sono i primi ad accorgersi della tragedia e a dare l’allarme. Lo schianto si porta via tutta la squadra del Grande Torino, tre dirigenti, gli allenatori e il massaggiatore, oltre ai già citati cronisti sportivi: si salva solo chi non era partito perché infortunato (Sauro Tomà), non convocato (Renato Gandolfi) o ammalato come il presidente Ferruccio Novo e Luigi Giuliano, oppure come Tommaso Maestrelli, invitato pur giocando nella Roma, che non riesce a rinnovare in tempo il passaporto e non parte insieme alla squadra torinese. Una tragedia nazionale.

Ai funerali, tenutisi il 6 maggio successivo, partecipa un’intera città: mezzo milione di persone sono in strada per dare l’ultimo saluto non solo a una squadra, ma a un simbolo.

Quella squadra, che mieteva successi in Italia e in Europa, era infatti la depositaria delle aspettative di rinascita di un intero popolo, che esorcizzava, nelle vittorie del Grande Torino, le tragedie di una guerra perduta conclusasi da pochi anni. Come ha ricordato anche Sandro Mazzola, campione dell’Inter e della nazionale, anni dopo la tragedia in cui perse la vita suo padre Valentino, quel Torino era quindi un simbolo per una nazione intera, indipendentemente dalla propria fede calcistica.

Il Torino fu proclamato vincitore del campionato a tavolino, e tutte le squadre in gara, compresa quella granata, schierarono le formazioni giovanili nelle restanti quattro partite.

Lo sgomento per quella tragedia, in cui persero la vita i dieci undicesimi della nazionale italiana, fu così grande che la massima selezione si recò ai mondiali in Brasile del 1950 in nave.

Le cause della tragedia

Cosa accadde all’I-Elce? L’ipotesi più accreditata, stante il fatto che gli esiti della commissione di inchiesta risentono delle tecniche investigative di quegli anni, è che una serie di eventi abbia portato l’equipaggio a un’erronea interpretazione delle condizioni di volo.

La visibilità, molto scarsa, e il forte vento, hanno portato il G-212 al di fuori della rotta prevista, spostandolo verso nordest di qualche miglio senza che il pilota potesse accorgersi. Anche i limiti stessi degli strumenti di bordo sono stati una concausa fondamentale per lo schianto: il Fiat G-212CP non era dotato di radioaltimetro e di radar di bordo, ausili che avrebbero permesso all’equipaggio di accorgersi dell’errore di rotta e della quota ridotta rispetto a quella dei rilievi circostanti.

Sebbene inizialmente si fosse pensato a un guasto all’altimetro, risulta difficile pensare che possa essere stata la causa dello schianto: il velivolo ne aveva tre, e un guasto simultaneo è da considerarsi improbabile. Lo stesso rateo di discesa, di circa 230 metri/minuto, che si registra tra la comunicazione delle 16.59 (“quota 2000 metri”) e lo schianto, è relativamente compatibile con una manovra effettuata seguendo gli strumenti di bordo correttamente funzionanti. Del resto, una volta recuperati gli stessi dopo lo schianto, fu chiaro che gli altimetri erano correttamente tarati rispondendo ai parametri della pressione atmosferica indicati da terra.

Un errore umano quindi, ma certamente non dovuto a inesperienza o imperizia: in quelle condizioni, con quel velivolo, sarebbe stato molto difficile per chiunque evitare la collina di Superga.

Così, in uno schianto nella nebbia, se n’è andata una squadra che ha rappresentato, più che il calcio italiano vincente, la voglia di rinascita di un’intera nazione. L’ultimo sopravvissuto di quella formazione, Sauro Tomà, ci ha lasciati raggiungendo i suoi compagni il 10 aprile del 2018 all’età di 92 anni.

Fonte il giornale