La Serie A è un’industria piena di debiti, che non riesce a garantire l’albergo per 50 persone. Mentre l’Nba si trasferisce armi e bagagli a Disneyworld.
I tifosi stavolta somo gli unici ad aver compreso che lo smascheramento del calcio come industria potrebbe – il condizionale d’obbligo – avere conseguenze sul fascino del calcio. Lo dicono a modo loro, ma colgono a nostro avviso un punto. Il calcio, l’industria calcio, si basa su una sottile menzogna. Si converrà che è un’industria particolare. Ci si illude che i nostri eroi giochino per la maglia, per l’amore dei tifosi. È il motivo dello straordinario successo del calcio (peraltro in netta flessione tra i giovani). È un inganno noto a tutti. Però – è acclarato – una cosa è sapere che il partner ti tradisce e un’altra è ascoltarlo dalla sua bocca. E stavolta c’è stata la confessione. In Germania, ad esempio, c’è un ricco dibattito sul tema.Da noi il dibattito è molto più asfittico. Le posizioni decisamente più rigide. Come se al fondo ci fosse fondamentalmente una paura del futuro. Paura economica. Legittima. Che però altera il senso della discussione.
L’Nba, che è un’industria vera, si è fermata al primo contagiato. L’Nba non ha avuto le sue Atalanta-Valencia né le sue Liverpool-Atletico Madrid. Leggere Ceferin che dice «il rischio zero non esiste» fa venire il prurito alle mani. L’Nba sta pensando di riprendere. Sta pensando di farlo portando tutti a Disneyworld, noleggiando una fetta del globo. Ragionano da imprenditori. Fanno il conto economico delle loro operazioni. Così agisce un’industria.
In Italia la Serie A batte i piedi e frigna perché non è in grado nemmeno di sistemare cinquanta persone in una struttura, figuriamoci spostare squadre, staff, familiari e compagnia bella a Orlando. In Germania hanno serenamente garantito la quarantena negli alberghi. Ma di quale industria parliamo? Quali sono i manager che gestiscono il calcio italiano? Non ha torto Zeman quando dice che è un’azienda che genera più debiti che ricavi. Se il sistema non si regge, e non si regge (basta dare uno sguardo ai bilanci o ricordare le vergognose plusvalenze ipergonfiate, giusto per fare un esempio), è destinato ad andare sbattere sulle onde del mercato che lo riportano sulla retta via.
Come si chiamano? Shock economici? Persino l’Economist scrive che lo sport non può prescindere dal suo pubblico. A noi pare, invece, che il calcio – e tutti coloro i quali partecipano a vario titolo al carrozzone – si sia tappato le orecchie ed emetta suoni sconsiderati ad altissimo volume. Vuole solo che tutti torni come prima, e non perdere nulla. Un po’ come i bambini capricciosi. O come i grandi che non vogliono diventare adulti.